Santuario del transitorio – Alessandro Salvi – (2014)

È la prima volta che mi azzardo a scrivere qualcosa riguardante la poesia. E credo sia necessaria una brevissima premessa per chiarire subito che, oltre a leggerne davvero poca, sono ignorante in materia. Mi preme sottolineare questo aspetto, perché il mio intento è semplicemente quello di esprimere sensazioni suscitate dalla lettura e nient’altro.

Santuario del transitorio colpisce forte, sin dal titolo, perché ci pone di fronte a un’interessante simbiosi tra l’intima natura della forma d’arte utilizzata (il santuario) e la caducità dell’esistenza umana (il transitorio). La copertina, poi, oltre a ratificare il concetto, con l’immagine di un volatile meccanico[1], formato da “ingranaggi” in bella mostra, addirittura lo complica: qual è la natura di questo essere? È creato con materiale di scarto? È un automa? – (per quanto possa risultare banale affermarlo, non è forse vero che oggi l’esistenza umana è sempre più simile a un’esistenza artificiale?)

Le poesie che compongono Santuario sono suddivise in tre sezioni che possono rappresentare altrettanti luoghi di passaggio, all’interno dei quali l’autore offre le proprie dimensioni di esistenza. E si tratta di dimensioni transitorie che diventano impronte con le quali potersi confrontare. Ma, addentrarsi nel percorso costruito per attraversare questi luoghi, ci immette su un sentiero dall’esito incerto: «Le inarrivabili parole tramano / chissà che cosa a mia grande insaputa.»

Leggendo queste poesie appare evidente che la necessità di doverle scrivere è vitale («sei tu il pane che bene o male sfama» e «io dentro queste parole ci vivo»). I versi di Alessandro Salvi, quindi, sono impregnati di “vissuto” e sono ciò che – allo stesso tempo – “costringe” a vivere. E da tale contrasto emerge la principale forza del loro affrontare il lettore.

La tensione che si crea tra la realtà dall’interno della quale ci si esprime («Io vi parlo da questa / inospitale zona del sentire») e quella esterna che si subisce («Non posso tollerare più le vostre / parole polveriere […]») è “ideale” condizione dell’agitarsi di ognuno di noi; la lotta in cui ci si dimena per restare a galla, in mezzo a ondate di affanni spesso inutili («dove un’arcana arca vaga in cerca / di chissà quale segreto presagio»).

La lettura di Santuario del transitorio ci proietta in una zona “sospesa”, dove spazio e tempo hanno quasi sempre una sapore onirico (e un po’ alticcio), e dispiega versi che cercano, tra distacco e sapiente ironia, un modo quasi disperato per (r)esistere («Sono un ladruncolo di tamerici. / A volte faccio il gradasso, poi cedo / al tuo cospetto. […]»)

 

[1] Una scultura di Andrija Milovan.

Siete dei – Chiara Daino – (2016)

 

Siete dei è un libro pieno di “m” ed esorta a uno sforzo creativo per produrre delle “m”, concentrandosi sui propri mezzi (senza invischiarsi nelle “m” altrui). Un libro che sa mazzolare ed essere memento. Scaglia le sue parole contro qualcuno e qualcosa, ma non è da considerare un’invettiva – o, perlomeno, non un’invettiva gratuita. Le “m” di cui si riempie, per comporre un puzzle di pezzi di “m” da aggredire, sono così levigate da ammutolire e lasciare ad occhi aperti. Sono delle “m” preziose, che risplendono di ritmo, poesia, fantasia e umorismo: insomma, un insieme assolutamente gradevole da leggere.

Il lettore, solitamente, alla “m” non ci pensa. Magari lo fa pure, ma in maniera superficiale. E tende sempre un po’ a guardare alla “m” degli altri. Leggendo Siete dei, si trova, invece, di fronte a una specie di punto di svolta della sua vita da lettore, poiché è chiamato a rendersi conto che per tutti giunge, prima o poi, quel momento in cui è inevitabile rimestare le proprie “m”. E se non ci si è sforzati in maniera corretta, a combinarle [queste “m”], viene fuori un gran brutto pasticcio.

Ma perché la “m” è così importante? L’interrogativo sorge spontaneo, ma per rispondere si rischia di perdere il filo del discorso, per cui invito a leggere La Merca, per rendere l’idea di cosa possa essere un marchio. Tornando a noi, invece, basti pensare a dove si posiziona la “m” nell’alfabeto italiano: esattamente nel mezzo.

Osservare la parte centrale di qualcosa ci connette con l’essenza di questo qualcosa. Siete dei sfrutta, quindi, il mezzo per occuparsi di tanti piccoli pezzi di “m” e individuare diversi argomenti che si lavora ben bene. E si tratta di pezzi che possono andare ad assemblarsi, formando una struttura generale delineata e precisa.

Anche se il libro, che è un vero e proprio testo vivente, si definisce «incomprensibile», il messaggio è diretto.

Anche se il libro ci racconta di sé, siamo di fronte a un sé che ha a che fare con l’esistere – e l’esistere (almeno in linea teorica) dovrebbe riguardare un po’ tutti noi.

Sì, perché, se parliamo di “essenza”, possiamo parlare anche di “origine” e “natura”, possiamo pensare a “Storia” e “attualità”, “mitologia” e “favola”, nonché a realtà “immanenti” e “trascendenti”. Ma ora sto iniziando a invischiarmi in “m” che non mi competono, per cui è meglio smettere.

Del resto, sono anch’io un pezzo di “m” e (grazie a Siete dei) avrò modo di ricordarlo spesso, ma – cosa ben più importante – di agire affinché io sia un pezzo di “m” migliore.