Nuova Gianturco – Francesco Di Bella – (2016)

Esaurita l’avventura 24 Grana e archiviata l’esperienza Ballads Cafè, Francesco Di Bella giunge al suo “vero” debutto da solista[1]. Nuova Gianturco è il primo disco di inediti e il cantautore decide di raccontare un luogo di Napoli che rappresenta il punto di partenza della sua attività musicale (nel periodo della cosiddetta “Vesuvio Wave”[2]).

L’album è (nelle parole dello stesso autore) un piccolo concept, animato da personaggi di periferia. Un lavoro in grado di restituire all’ascoltatore immagini romantiche, che si contrappongono a quelle di degrado solitamente associate a determinate zone metropolitane. E proprio la title track esemplifica al meglio la natura del prodotto: il suo andamento arioso (con l’affiorare – mai invadente – di una lieve melodia d’archi), che si “oscura” soltanto nella parte conclusiva, offre l’odore della benzina e la visione di fabbriche “cadute”; ma descrive una realtà capace di esistere e rinascere, in un riuscito contrasto di luci ed ombre[3].

Con piglio da menestrello sincero, Francesco Di Bella si avvale di preziose collaborazioni[4] per esporre in maniera efficace le sue storie. L’ex leader dei 24 Grana ha sempre mostrato una naturale attitudine a esplorare territori musicali al di fuori del contesto band, trovandosi a proprio agio[5]. Nuova Gianturco gli consente di  mescolare diverse atmosfere sonore su una solida base di elementi per i quali si può spendere il termine folktronica. Gli episodi più significativi di questa libera (ma omogenea) commistione si riscontrano nella rilettura di Brigante se more[6] e nella traccia più “rockeggiante” dell’intero lotto, ossia Blues napoletano.

Aziz, personaggio protagonista dell’omonimo brano, diventa il simbolo dell’insieme dello spettro musicale di Nuova Gianturco. La canzone è sostenuta da un’impalcatura ritmica vagamente esotica, contrappuntata da qualche nota di piano appena appena dissonante (che si accorda al tema trattato: gli emigranti e la connotazione spesso multietnica delle periferie). In questa struttura si inserisce, senza provocare traumi, l’incursione elettronica più marcata (dal lieve sapore trip hop) dei 99 Posse, per garantire un senso di frustrazione e rivalsa sociale (al tempo stesso). E comunque Aziz «Nun adda dà cunto a nisciuno.»

Tre nummarielle, il singolo che ha accompagnato la pubblicazione dell’album, racchiude (invece) lo spirito di calorosa malinconia che contraddistingue l’autore e il suo favolistico messaggio di speranza.

Nota a margine

Gianturco non è Scampia e oggi Francesco Di Bella si esprime in maniera (se non proprio diversa) meno “urgente” dei primi anni coi 24 Grana, tuttavia mi piace sottolineare ancora la naturale attitudine che lo conduce a collaborare con altre realtà artistiche e la sua propensione al “fare”. Perché è possibile riscontrare in questa qualità una vera e propria cultura di rinascita dal “basso” e creare un parallelo con il lavoro della band ‘A67. Mi piace chiudere, senza dilungarmi oltre, proponendo questo video trovato sul Tubo, dedicato a Felice Pignataro (così come la canzone Felice – ‘A67 + Francesco Di Bella), per cercare di rendere l’idea (almeno provarci).

[1] In realtà il gruppo di lavoro Ballads Cafè resta intatto, stretto intorno alla produzione di Daniele Sinigallia.

[2] Questa definizione accompagna per un po’ di tempo 99 Posse, Almamegretta e 24 Grana nella seconda metà degli anni Novanta.

[3] La scrittura di Francesco Di Bella gioca spesso sulla soglia di una dimensione che divide il giorno dalla notte e sulla ricerca di un certo tipo di luminosità che si trova negli angoli “scuri”. Basti pensare a brani come Kevlar (2001), L’attenzione (2003) e L’alba (2008). Tutte canzoni del periodo 24 Grana e si può affermare che Underpop (2003) sia il disco sul quale emergono i primi sintomi del possibile futuro solista di Di Bella.

[4] 99 Posse, Neffa, Dario Sansone, Claudio “Gnut” Domestico e Joe Lally (Fugazi).

[5] Già nel 2005 collabora con Marina Rei sull’album Colpisci (nel brano Song’ je), la quale restituisce il favore in Smania ‘e cagna’, contenuta in Ghostwriters (2008) dei 24 Grana. Non a caso, forse, Ghostwriters è il penultimo disco della band e quello che rende l’idea potesse essere l’inizio di un nuovo percorso – qui nasce la “partnership” con Daniele Sinigallia.

[6] Brano scritto da Carlo D’angiò ed Eugenio Bennato ai tempi dei Musicanova (1980), particolarmente importante per la “crescita” di Francesco Di Bella – e che diventa anche un tributo per lo scomparso D’Angiò.

Santuario del transitorio – Alessandro Salvi – (2014)

È la prima volta che mi azzardo a scrivere qualcosa riguardante la poesia. E credo sia necessaria una brevissima premessa per chiarire subito che, oltre a leggerne davvero poca, sono ignorante in materia. Mi preme sottolineare questo aspetto, perché il mio intento è semplicemente quello di esprimere sensazioni suscitate dalla lettura e nient’altro.

Santuario del transitorio colpisce forte, sin dal titolo, perché ci pone di fronte a un’interessante simbiosi tra l’intima natura della forma d’arte utilizzata (il santuario) e la caducità dell’esistenza umana (il transitorio). La copertina, poi, oltre a ratificare il concetto, con l’immagine di un volatile meccanico[1], formato da “ingranaggi” in bella mostra, addirittura lo complica: qual è la natura di questo essere? È creato con materiale di scarto? È un automa? – (per quanto possa risultare banale affermarlo, non è forse vero che oggi l’esistenza umana è sempre più simile a un’esistenza artificiale?)

Le poesie che compongono Santuario sono suddivise in tre sezioni che possono rappresentare altrettanti luoghi di passaggio, all’interno dei quali l’autore offre le proprie dimensioni di esistenza. E si tratta di dimensioni transitorie che diventano impronte con le quali potersi confrontare. Ma, addentrarsi nel percorso costruito per attraversare questi luoghi, ci immette su un sentiero dall’esito incerto: «Le inarrivabili parole tramano / chissà che cosa a mia grande insaputa.»

Leggendo queste poesie appare evidente che la necessità di doverle scrivere è vitale («sei tu il pane che bene o male sfama» e «io dentro queste parole ci vivo»). I versi di Alessandro Salvi, quindi, sono impregnati di “vissuto” e sono ciò che – allo stesso tempo – “costringe” a vivere. E da tale contrasto emerge la principale forza del loro affrontare il lettore.

La tensione che si crea tra la realtà dall’interno della quale ci si esprime («Io vi parlo da questa / inospitale zona del sentire») e quella esterna che si subisce («Non posso tollerare più le vostre / parole polveriere […]») è “ideale” condizione dell’agitarsi di ognuno di noi; la lotta in cui ci si dimena per restare a galla, in mezzo a ondate di affanni spesso inutili («dove un’arcana arca vaga in cerca / di chissà quale segreto presagio»).

La lettura di Santuario del transitorio ci proietta in una zona “sospesa”, dove spazio e tempo hanno quasi sempre una sapore onirico (e un po’ alticcio), e dispiega versi che cercano, tra distacco e sapiente ironia, un modo quasi disperato per (r)esistere («Sono un ladruncolo di tamerici. / A volte faccio il gradasso, poi cedo / al tuo cospetto. […]»)

 

[1] Una scultura di Andrija Milovan.

Siete dei – Chiara Daino – (2016)

 

Siete dei è un libro pieno di “m” ed esorta a uno sforzo creativo per produrre delle “m”, concentrandosi sui propri mezzi (senza invischiarsi nelle “m” altrui). Un libro che sa mazzolare ed essere memento. Scaglia le sue parole contro qualcuno e qualcosa, ma non è da considerare un’invettiva – o, perlomeno, non un’invettiva gratuita. Le “m” di cui si riempie, per comporre un puzzle di pezzi di “m” da aggredire, sono così levigate da ammutolire e lasciare ad occhi aperti. Sono delle “m” preziose, che risplendono di ritmo, poesia, fantasia e umorismo: insomma, un insieme assolutamente gradevole da leggere.

Il lettore, solitamente, alla “m” non ci pensa. Magari lo fa pure, ma in maniera superficiale. E tende sempre un po’ a guardare alla “m” degli altri. Leggendo Siete dei, si trova, invece, di fronte a una specie di punto di svolta della sua vita da lettore, poiché è chiamato a rendersi conto che per tutti giunge, prima o poi, quel momento in cui è inevitabile rimestare le proprie “m”. E se non ci si è sforzati in maniera corretta, a combinarle [queste “m”], viene fuori un gran brutto pasticcio.

Ma perché la “m” è così importante? L’interrogativo sorge spontaneo, ma per rispondere si rischia di perdere il filo del discorso, per cui invito a leggere La Merca, per rendere l’idea di cosa possa essere un marchio. Tornando a noi, invece, basti pensare a dove si posiziona la “m” nell’alfabeto italiano: esattamente nel mezzo.

Osservare la parte centrale di qualcosa ci connette con l’essenza di questo qualcosa. Siete dei sfrutta, quindi, il mezzo per occuparsi di tanti piccoli pezzi di “m” e individuare diversi argomenti che si lavora ben bene. E si tratta di pezzi che possono andare ad assemblarsi, formando una struttura generale delineata e precisa.

Anche se il libro, che è un vero e proprio testo vivente, si definisce «incomprensibile», il messaggio è diretto.

Anche se il libro ci racconta di sé, siamo di fronte a un sé che ha a che fare con l’esistere – e l’esistere (almeno in linea teorica) dovrebbe riguardare un po’ tutti noi.

Sì, perché, se parliamo di “essenza”, possiamo parlare anche di “origine” e “natura”, possiamo pensare a “Storia” e “attualità”, “mitologia” e “favola”, nonché a realtà “immanenti” e “trascendenti”. Ma ora sto iniziando a invischiarmi in “m” che non mi competono, per cui è meglio smettere.

Del resto, sono anch’io un pezzo di “m” e (grazie a Siete dei) avrò modo di ricordarlo spesso, ma – cosa ben più importante – di agire affinché io sia un pezzo di “m” migliore.

… Fine Art …

I

Ho finito.
E forse già da tempo.
Il basso non implode più e non ha nulla di pesante: ruota ancora su se stesso e basta. Il suono gira sporco, invece, solamente a parole.
Il giorno si ricicla, nello scarto di tutto ciò che perdo, e nell’alba di inutili note.
La porta è chiusa a chiave sotto un altro tetto sconosciuto.
Spargo nuovi tentativi ma adesso dovrei sapere che è solo ripetere sempre la stessa frase, costi quel che costi – come se fosse ancora necessario, come se avessi da comunicare.

II

Conservo ancora il vecchio taccuino e ne osservo i segni incerti sulle pagine ingiallite, le fitte righe incomplete da unire. Ma non le so più combinare: ho smesso, non ne vale la pena.
La rabbia resta una forma obbligata, benché non contagi nessuno. L’ironia non si comprende [Non si accetta.] e diventa solo il gioco della noia.
Costeggio vetro, ferro e cemento. L’asfalto, ora, è un deserto da percorrere.
La strada non conduce in nessun posto, così come i miei voli che sono solo della densa nebbia (divento io stesso una coltre).
Non servono appunti di viaggio: le città sono uguali ovunque.

III

Siete solo dei detriti di feste che non sanno divertire e non so perché continuo a sorridere e a rispondere (anche se non c’è niente da raccontare). Resto all’angolo e ti chiedo di starmi accanto, benché non ci sia alcuna ragione per doverlo fare – o (comunque) non più quella giusta. Inoltre, anche il motivo diffuso nell’aria, non è quello giusto: [Come non sono giuste queste luci.]: è tutto artificiale, assieme agli sguardi. Eccetto te, che dovresti bastare, ma non riesco più a distinguere nessuna differenza. La scena richiede ancora il suo tributo di intrattenimento.

IV

La stanza si contorce assieme ai miei organi. Le pareti variano, ma la sequenza è sempre la stessa. La scatola è un furioso brulichio di formiche impazzite, in completa simbiosi col mio viso (anche se sembra lo contenga a stento). Le scariche dei neon elettrizzano il corpo a fasi alterne. L’ambiente capovolge e casco dal letto sul soffitto storto. Il quadrato aperto è un buco nero, che trascina – lentamente – dentro nuovi esempi di psicosi.

V

E ancora avverto la necessità [Di scrivere.] ma posso tirar fuori solo assenze.
L’orologio, per quanto mi riguarda, è fermo e non so più se devo aspettare – oppure andare in qualche posto. E anche se è vero, che il tempo ancora ritorna [Delle volte.], tutte le tracce lasciate mancano.
L’aria è condizionata, ma non sa condizionare (e, comunque [Io.], non sono in condizione). Resta lo sguardo per qualche altro viso e un prossimo giorno – che avanza con torto, senza ragione.
Ho messo in fila tutti i consigli (e qualcosa ho preso). Ma adesso non sento il bisogno [Non sento più il bisogno.] di dover restituire.
Ho finito.

Il risveglio del mare

I

La coscienza del mare si risveglia e lascio che l’aria mi culli nell’acqua per assorbire la vasta distesa. Ritorno ad astrazioni trasparenti e perdo, finalmente, l’orizzonte: non è più necessario fingere dei colori. Abbandono lo zaino e l’ingegno si dirige solo verso sponde distanti. Lo spazio appare dischiuso e svuotato dalle ombre di tutti gli oggetti. L’umida energia salina si sparge sulla pelle e ne posso respirare ogni goccia, che mi colma i polmoni – per sospendere piccoli momenti di scrittura altrimenti assente. Assimilo la luce (ondulata in riflessi d’azzurro) che filtra dalla membrana celeste: la superficie di un’altra atmosfera. Come un’isola immersa, posso osservare tutto ciò che affonda.

II

Il clima opprime e non riesco a galleggiare. Non riesco a nuotare perché l’habitat non m’appartiene. Sono stanco della marea che cresce, dei luoghi dove l’acqua è sempre bassa, degli scogli da ritrovo e degli appigli a buon mercato, ma anche delle esche per prede che abboccano ogni volta. Sono stanco.
Comincia un lieve abbandono sul fondo per adagiare il corpo sulla sabbia – e solo alla ricerca delle razze come me. Senza pensare [lascio che sedimenti], osservo ciò che resta: l’ambientarsi è diverso rispetto all’abituarsi. Rallento le funzioni del bioritmo per concentrare tutta l’attenzione attorno all’attività d’osservazione.

III

Lascio che la ragione si abbandoni [passiva] alle correnti e alle onde. Affidarsi all’intuito, per la scelta della scia: seguire solamente le migliori, quelle adatte al naufragio.
Ci sono rotte tracciate a vista e si dice ne esista una che traghetti verso un porto sicuro, ma il mio essere al sicuro è restare distante da tutto. La mia scelta è la deriva (come fosse un rifiuto dell’approdo). La rotta tracciata a vista da un altro non potrà mai raggiungere il baratro.
Ricerco il naufragio per la gioia di riuscire a deludere.

Foto da qui: https://joanaiken.wordpress.com/2015/04/02/take-a-book-wherever-you-go/

La luce del frigo

La luce del frigo ha nuovi silenzi da offrire,
mentre la notte non ha
scelto ancora il suo corso.

Lo schermo non funziona e non racconta più
della conservazione della specie,
di come preservare il disumano
e isolare tutto il resto.

Informazioni crepitate fuori in puntini di ghiaccio
che affilano l’ambiente senza danni evidenti.
Girano in cerchio: serie di puntini,
nel desiderio di essere (vivi e nutriti).
I puntini sbagliati,
quelli che giudicano il mio giudizio
e variano il mio stato, fino alla stasi.

Scavo, poi, a fondo,
in mezzo a prodotti scaduti.
Imparo a cucinare nella notte e sembra sia una soluzione adatta:
[Cibo come puntini.]
prelibate pietanze d’inutilità sociale.

E ora so bene perché
scelgo una dieta a base di silenzio
blu:
per lasciare che i puntini pensino (i loro pensieri),
si nutrano da soli e siano – esattamente
– ciò che hanno da vomitare.

Il mio bioritmo inizia a rallentare
perché così deve e perché
i puntini girano nella feroce avidità di cibo.
Ma, non appena rallentano, allora,
sono io a girare di nuovo veloce.

Evito il loro crepitare fitto,
affinché resti solo dell’acqua.

Puntini sospensivi.

la luce del frigo è gialla e spesso idea precotta

Di inerzia e silenzio

 

Oggi so stare in silenzio e ringrazio
il dizionario e quel po’ d’esperienza
degli anni trascorsi all’ombra di frasi
saggiamente inespresse. Quindi azzero
le inutili scadenze e i loro vincoli
per dire addio ai volti di tutti i giorni.
Svuotato, di ogni bisogno concreto,
rispondo a stento – con poche parole
(così precise che valgono niente).
Posso ancora fallire e poi riuscire:
evitare, queste esigenze non mie.
Non serve fingere e produrre scuse,
cercare di apparire adeguato,
perché – anche se sono uno zero
– equivalgo comunque a una risorsa
che si può esaurire. Ci si illude,
allora, che esista l’inerzia senza
la frenesia dello sfruttamento.
Agisco per accumulo di errori
e, lasciando aumentare il deposito,
provo l’interazione senza scambio –
come se fosse un valido espediente.

ancora azzanno qualcosa la sera e riposo

Seattle Syndrome Two – (1983)

Nel 1983 la Engram Records cessa le attività e il suo lascito è Seattle Syndrome Two, che prosegue – idealmente – il discorso intrapreso con la prima compilation del 1981. E si tratta di un disco che documenta sia il cambiamento della piccola scena underground di Seattle sia la sua effettiva scomparsa. Del “Volume One” non ci sono superstiti[1] e le realtà più promettenti si sono già dissolte (o si dissolvono di lì a breve – e comunque lontano dalla città e dallo Stato): i Fartz (diventati nel frattempo 10 Minute Warning) tirano le ultime e Blaine Cook va a unirsi agli Accüsed; i Blackouts si sono trasferiti, ma pure hanno vita breve; X-15/Life In General, da un punto di vista discografico, non riescono ad andare oltre la pubblicazione di un Ep di cinque brani. Resistono solo i Fastabcks che concentrano i loro sforzi nella No Threes Records, mentre i Pudz si accingono a diventare Squirrels.

Per la nuova cucciolata, tuttavia, gli spazi di azione si riducono ai minimi termini, per via della chiusura della casa discografica e per via delle “restringenti” normative che iniziano a essere attuate per la gestione dei club dove è possibile suonare dal vivo. Red Masque, Cinema 90 e Memory si dibattono tra dark wave e synth-pop senza alcuna ambizione. I Next Exit offrono una discreta miscela post-punk dal sapore vagamente surf con chitarra tremolante, mentre i Dynette Set (un po’ Blondie, un po’ B-52’s) rappresentano il volto più gradevole della compilation[2]. L’atmosfera complessiva, in ogni caso, è completamente diversa rispetto a quella del 1981 e prevalgono tentativi “avanguardistici” che guardano più a ritmi sghembi e ballabili, lasciando emergere sensazioni disco-funk, con un orecchio sempre teso verso i Talking Heads (Beat Pagodas, 3 Swimmers e Steddi 5), che all’approccio essenzialmente punk del “Volume One”. Vi si trova anche la vena tribale ed eterea della cantautrice e polistrumentista Sue Ann Harkey.

Nel mezzo delle quattordici tracce che compongono il disco si ritaglia un posto pure un bizzarro brano rumoristico intitolato (forse non a caso) Out Of Control. Gli autori della canzone in questione sono i Mr Epp & The Calculations, ideati dal vocalist Joe Smitty – affiancato, a livello creativo, dall’amico Mark Arm (futuro Mudhoney). Il gruppo, in città, non solo si può già fregiare –orgogliosamente – della reputazione di “peggior band al mondo”, ma è anche la più attiva nella scena da scantinato che si sta sviluppando in questo momento. L’incedere da sgangherata marcia marziale e lo sferragliare chitarristico insensato che accompagnano l’alienante salmodiare di Smitty (che sfocia in qualche urlo improvviso di tanto in tanto) certificano lo status di vero pioniere della storia del grunge di Mark Arm.

Bisogna evidenziare, infine, che nel periodo di pubblicazione di Seattle Syndrome Two il movimento hardcore inizia a imporre prepotentemente il proprio credo in giro per gli Usa e a Seattle le band del ridotto circuito underground aprono per formazioni fondamentali come X, Black Flag e Hüsker Dü. Benché la Engram chiuda i battenti, i ragazzi del Nordovest hanno voglia di suonare e divertirsi, fosse pure semplicemente per riunirsi in garage o in cantina a far baccano con la classica strumentazione rock (basso-batteria-chitarra). U-Men[3], Mr Epp, Malfunkshun, Melvins e, poi, Soundgarden e Green River cominciano a gettare le basi per la costruzione di un nuovo percorso.

[1] Escludendo James Husted (Body Falling Downstairs e K7SS), il quale suona il sax in Credo, la minimale sperimentazione dei Celestial Pygmies.

[2] Entrambe le formazioni, in quel 1983, riescono comunque a pubblicare un album: i Next Exit escono con Metropolitan West, mentre i Dynette Set vengono fuori con Rockers And Recliners.

[3] Capitanata dal cantante John Bigley, questa formazione rappresenta (in quel preciso momento – nonostante l’assenza in Seattle Syndrome Two) l’unica realtà che sembra in grado di potersi affermare.

Il solito incrociarsi

www.theclash.com

…e non è proprio giornata. Gira al largo.
Perché sono stanco.
E tanto stanco, da non voler parlare:
figurati con te!
Specialmente adesso, che questa divisa
di futile ordinanza
non funziona più come una volta.

Gli orecchini brillano le loro scintille d’argento
con i troppi gingilli che oscillano
in un grappolo di falsa allegria
(anche se ormai sono solo dei simboli resi innocui dal tempo);
il sole viola sparge invece – elettrico – i suoi raggi
sulla maglia tutta stinta;
e quei laceri jeans, da finta battaglia,
tentano ancora i loro ultimi assalti.

Ma tra me e te, chi è veramente sciatto?
Io, non tu – naturalmente. E non me ne vanto affatto,
anzi … me ne vergogno. Soprattutto di fronte
a questo naturale desiderio di piacere e stare al centro.

E ancora quel testo di corso, che non t’interessa, abbandonato in giro,
di qua e di là, nella strana speranza
che si possa notare il pezzo di carta
(un piccolo ritaglio, colorato a mano), dove sono annotati
i tuoi docili pensieri in ordine sparso.

Così, di nuovo, mi chiedi dei Clash e del loro ideale di punk.
Proprio adesso, che le joy division
possono essere buono soltanto
per un aspirante suicida.
Adesso
che sai agitarti
e “impegnarti” con gioia.

[Ma Robert Smith è sempre
sul suo piedistallo.]

Non è giornata e l’ho già detto.
Eppure non giri alla larga, sei ostinata:
vuoi vedere il lettore, curiosa dei nomi. E alla fine cedo
(chissà poi perché).
Noti l’album dei Bon Jovi e t’incazzi,
quando affermo – sicuro – che mi piace ogni brano.
Manco avessi lanciato una bestemmia,
e talmente furiosa, da far crollare il cielo
(e del resto lo so che ci credi alla storia).

Ma il problema è di entrambi:
per me si tratta
di essere sempre quel solito fesso
che sembra sappia delle cose che hanno importanza
(quando invece si vuole “divertire” e basta);
per te si tratta
di volere vantare una presunta libertà di fare
– anche se t’interessa sapere
proprio tutte quelle cose
che invece a niente ti serve sapere.

Lasciamo stare, restiamo in silenzio:
zitti e buoni, simili alle mosche
– le mosche che siamo.
E allora scampiamo, al nostro solito incrociarsi.

[Almeno per quest’oggi.]

Gioco o non-gioco ( ? )

Dino è un bimbo come tanti. Un bimbo al quale piace giocare. E pure a Dino – come a tanti altri bambini – viene impartita una seria lezione, riguardante il gioco: l’unica cosa che conta è la vittoria. Dino impara quindi a giocare solo per vincere ed è già – perfettamente – integrato in un sistema di non-gioco. Il gioco non è importante: importante è solo il risultato. Deve vincere sugli altri e non per sé stesso. E se si ritrova all’interno di un gioco di squadra, Dino non deve preoccuparsi neppure dei compagni: perché potrebbero cambiare squadra in qualsiasi momento e la vittoria è del singolo. Dino viene addestrato per comprendere che deve essere considerato migliore degli altri per vincere. Migliore a prescindere dalla qualità della sua bravura e perseguire esclusivamente la [propria] vittoria. Dino dimentica l’esistenza delle regole del gioco, oppure non le sa più distinguere. Dino dimentica che un gioco è pur sempre un gioco e si basa sulle regole: regole che non solo si dovrebbero conoscere, ma anche rispettare. Dino sa solo di dover correre veloce per raggiungere presto il primo traguardo – e oltrepassarlo il prima possibile. Dino, furbetto più degli altri, sceglie la corsia (almeno apparentemente) più agevole da percorrere. Ma lui – a questo punto – è già fuori pista, già al di fuori delle regole: guarda dritto al secondo traguardo e ad acquisire solo il metodo per vincere a qualsiasi prezzo. Dino cresce e vince, oltrepassando traguardi stabiliti da enti al di sopra di lui: cresce e vince solo a scapito degli altri.

Gino è un bimbo come tanti. Un bimbo al quale piaceva giocare. Ora – invece – è tra bambini accomunati dal rifiuto per il gioco. Gino ama giocare per vincere: vincere contro sé stesso. Gino ama giocare per riconoscere i propri limiti e andare oltre: superare sé stesso per vincere l’avversario più forte; superare sé stesso per aiutare i compagni di squadra; superare sé stesso per offrire la sua qualità al pubblico intorno (anche quello che non lo sostiene). Gino ama vincere, ma fatica a capire la seria lezione. Gino sa di dover affrontare l’ostacolo, non di doverlo aggirare (sempre e comunque): e sa pure che ci può essere vittoria nella sconfitta, ammesso che si affronti l’ostacolo – perdendo, ma lasciando sul campo tutto ciò che si ha. Gino fatica tanto e rifiuta. Rifiuta di correre e di scendere in pista con Dino. Da quando Dino ha reso ridicola ogni sua spettacolare vittoria. Gino proprio non riesce a comprendere come si possano associare competizione e sopraffazione: per lui vincere non significa vincere sugli altri.

Gino oggi è isolato. Anche lui fuori pista, ma per altro motivo. Cerca svago in posti poco frequentati. Quei posti dove sa che è ancora possibile incontrare qualcuno – isolato come lui – per dedicarsi assieme al gioco. Un gioco di emarginati tra emarginati: la speranza che qualche spettatore riesca ad assistere per riscoprire quanto sia importante il gioco.

Il video non ha alcuna attinenza con lo scritto, ma è necessario per motivi che non vi riguardano: se non vi sta bene, scegliete voi. Il Tubo è pieno di video: imparare a scegliere è cosa buona e giusta.