… Fine Art …

I

Ho finito.
E forse già da tempo.
Il basso non implode più e non ha nulla di pesante: ruota ancora su se stesso e basta. Il suono gira sporco, invece, solamente a parole.
Il giorno si ricicla, nello scarto di tutto ciò che perdo, e nell’alba di inutili note.
La porta è chiusa a chiave sotto un altro tetto sconosciuto.
Spargo nuovi tentativi ma adesso dovrei sapere che è solo ripetere sempre la stessa frase, costi quel che costi – come se fosse ancora necessario, come se avessi da comunicare.

II

Conservo ancora il vecchio taccuino e ne osservo i segni incerti sulle pagine ingiallite, le fitte righe incomplete da unire. Ma non le so più combinare: ho smesso, non ne vale la pena.
La rabbia resta una forma obbligata, benché non contagi nessuno. L’ironia non si comprende [Non si accetta.] e diventa solo il gioco della noia.
Costeggio vetro, ferro e cemento. L’asfalto, ora, è un deserto da percorrere.
La strada non conduce in nessun posto, così come i miei voli che sono solo della densa nebbia (divento io stesso una coltre).
Non servono appunti di viaggio: le città sono uguali ovunque.

III

Siete solo dei detriti di feste che non sanno divertire e non so perché continuo a sorridere e a rispondere (anche se non c’è niente da raccontare). Resto all’angolo e ti chiedo di starmi accanto, benché non ci sia alcuna ragione per doverlo fare – o (comunque) non più quella giusta. Inoltre, anche il motivo diffuso nell’aria, non è quello giusto: [Come non sono giuste queste luci.]: è tutto artificiale, assieme agli sguardi. Eccetto te, che dovresti bastare, ma non riesco più a distinguere nessuna differenza. La scena richiede ancora il suo tributo di intrattenimento.

IV

La stanza si contorce assieme ai miei organi. Le pareti variano, ma la sequenza è sempre la stessa. La scatola è un furioso brulichio di formiche impazzite, in completa simbiosi col mio viso (anche se sembra lo contenga a stento). Le scariche dei neon elettrizzano il corpo a fasi alterne. L’ambiente capovolge e casco dal letto sul soffitto storto. Il quadrato aperto è un buco nero, che trascina – lentamente – dentro nuovi esempi di psicosi.

V

E ancora avverto la necessità [Di scrivere.] ma posso tirar fuori solo assenze.
L’orologio, per quanto mi riguarda, è fermo e non so più se devo aspettare – oppure andare in qualche posto. E anche se è vero, che il tempo ancora ritorna [Delle volte.], tutte le tracce lasciate mancano.
L’aria è condizionata, ma non sa condizionare (e, comunque [Io.], non sono in condizione). Resta lo sguardo per qualche altro viso e un prossimo giorno – che avanza con torto, senza ragione.
Ho messo in fila tutti i consigli (e qualcosa ho preso). Ma adesso non sento il bisogno [Non sento più il bisogno.] di dover restituire.
Ho finito.

Di inerzia e silenzio

 

Oggi so stare in silenzio e ringrazio
il dizionario e quel po’ d’esperienza
degli anni trascorsi all’ombra di frasi
saggiamente inespresse. Quindi azzero
le inutili scadenze e i loro vincoli
per dire addio ai volti di tutti i giorni.
Svuotato, di ogni bisogno concreto,
rispondo a stento – con poche parole
(così precise che valgono niente).
Posso ancora fallire e poi riuscire:
evitare, queste esigenze non mie.
Non serve fingere e produrre scuse,
cercare di apparire adeguato,
perché – anche se sono uno zero
– equivalgo comunque a una risorsa
che si può esaurire. Ci si illude,
allora, che esista l’inerzia senza
la frenesia dello sfruttamento.
Agisco per accumulo di errori
e, lasciando aumentare il deposito,
provo l’interazione senza scambio –
come se fosse un valido espediente.

ancora azzanno qualcosa la sera e riposo